Beppe Vessicchio. Il Maestro che dirigeva l’anima

Il Maestro che dirigeva l’anima
L'Editoriale di Luigi Palamara


Una Napoli che non esiste più. Quella del fumo che si alzava dalle ciminiere di Bagnoli come un’ostia nera, quella delle case annerite dall’amianto e dei bambini che giocavano tra aghi di ferro e sogni di musica. Da quella terra tossica e poetica, da quel ventre industriale e ferito, è venuto fuori Giuseppe Vessicchio, che tutti chiamavano semplicemente Beppe, come si chiamano i parenti buoni, gli zii affettuosi, i maestri che non hanno bisogno di cattedra per farsi ascoltare.

È morto Beppe Vessicchio, e con lui se ne va una parte gentile dell’Italia che ancora credeva nella musica come mestiere, come disciplina, come educazione civile. In un Paese che da decenni suona stonato, lui era la nota che teneva insieme il pentagramma. Non un divo, non un idolo, ma un uomo che credeva nel suono come nel respiro: qualcosa che non si spiega, ma si sente.

Vessicchio era nato nel 1956 a Bagnoli, in quell’Italia che cresceva tra acciaio e melodie, dove anche chi respirava amianto sognava il bel canto. “Giocavamo con le vasche d’amianto”, ricordava con una dolcezza quasi crudele. È da lì che viene il suo tono, la sua calma: da chi ha imparato presto che la bellezza è fragile e la vita, un assolo che non si ripete.

Non aveva la presunzione dei grandi direttori, ma la curiosità dei bambini. Fuori dal Conservatorio, da “uditore”, rubava note e segreti come un apprendista ruberebbe il mestiere al maestro. Lì, in quell’umiltà tenace, si formò il Vessicchio che conoscevamo: quello che faceva suonare l’orchestra come una carezza e non come una parata.

Eppure non fu solo il “direttore di Sanremo”, come lo hanno ridotto i titoli frettolosi. Era molto di più. Era un educatore della sensibilità, un uomo che aveva capito che la musica è una forma di moralità. Quando alzava la bacchetta, non comandava: pregava. E quando parlava della musica italiana, non la difendeva come un monumento, ma come una persona amata che si vuole salvare, anche dai suoi stessi eccessi.

“Il Maestro Vessicchio” divenne un modo di dire, un’icona pop suo malgrado. Ma dietro la barba bianca e il sorriso mite c’era un artigiano della bellezza. Quello che cercava armonia anche dove non c’era: tra le voci dissonanti dei talent, tra gli ego stonati della televisione, tra i silenzi del pubblico che non sa più ascoltare.

Se  l’avessi incontrato, gli avrei chiesto perché non si ribellava a questa mediocrità urlante. E lui, con quella calma napoletana che sa essere più tagliente di qualsiasi rabbia, avrebbe risposto che la ribellione, a volte, è continuare a suonare bene mentre il mondo stona.
L'ho amato per quella testarda eleganza d’altri tempi, per quel suo restare “fuori dal coro” pur essendo maestro di cori.

Oggi, mentre i giornali scrivono che “è morto il Maestro Vessicchio”, viene da pensare che non muore chi ha insegnato ad ascoltare. Muore il corpo, sì, ma la musica resta sospesa nell’aria, come un accordo che non vuole finire. E se chiudi gli occhi, puoi ancora sentirlo dirigere: non un’orchestra, ma un Paese che — almeno per un istante — ritrova la sua melodia.

Addio, Maestro.
Lei ha diretto la musica, ma ha insegnato a noi la cosa più difficile: ascoltare il silenzio tra le note.

Luigi Palamara
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