D10S: perché il calcio dovrebbe parlare il nome di Maradona.Un pallone bianco azzurro per tutti i campi di calcio. Uguale nel mondo.

D10S: perché il calcio dovrebbe parlare il nome di Maradona.
Un pallone bianco azzurro per tutti i campi di calcio. Uguale nel mondo.

L'Editoriale di Luigi Palamara


Cinque anni senza Maradona, dicono i calendari.
Ma i calendari mentono, come spesso mente la memoria degli uomini. Perché Diego, più passa il tempo, più vive. Vive nei campi spelacchiati dei quartieri, nelle partite della domenica, nell’urlo dei ragazzini che tirano una punizione e gridano “Diego!”. Vive come quei personaggi che Corrado Alvaro diceva “nati per non morire”, figure che il popolo non abbandona perché gli servono per continuare a sperare.

Maradona non è stato un santo, né ha tentato di esserlo. È stato un uomo con tutte le sue grandezze e le sue cadute, e proprio per questo popolare come pochi. Chi l’ha avuto accanto lo descrive come un leader istintivo, selvatico e leale: uno che non indossava armature, ma si caricava addosso i compagni come un fratello maggiore nato per proteggere la sua tribù.

Ha sbagliato, ha pagato, non ha mai chiesto pietà. E in questo era grande due volte: nella gloria e nella rovina. Nel risorgere sempre, anche quando tutti lo davano per finito. E forse è per questo che la gente oggi continua a percepirlo come vivo. Perché i morti, quelli veri, sono quelli che non parlano più; Diego invece parla in ogni pallone che rotola, in ogni dribbling che tenta di ripetere la sua danza.

Quel Mondiale dell’86, vinto quasi da solo, è diventato un racconto epico da tramandare come facevano gli antichi con gli eroi. Quello che fece a Napoli rimane un patto di sangue con una città che lo venera come un dio pagano. Ma il dono più grande, quello che gli somiglia di più, è l’aver trasformato le sue imperfezioni in grandezza.
Bassotto, mono-sinistro, vulnerabile, strutturalmente inadatto a essere il più grande.
Eppure lo è stato.
Lo è ancora.

Diego è uno di quegli uomini che “continuano a camminare nella vita degli altri anche dopo la loro scomparsa”. E così è: ogni volta che il pallone rimbalza, la sua ombra si allunga. Ogni volta che un numero 10 entra in campo, è come se indossasse la sua eredità.

C’è un’idea che ormai si affaccia ovunque:
che ogni pallone, ogni sfera cucita e messa in gioco, debba portare il numero 10 stampato sopra.
Non per nostalgia, ma per verità. Perché il calcio stesso deve riconoscere ciò che è: un’arte che Diego ha riforgiato.
Quel numero 10, allora, non sarebbe più solo un numero ma un nome:

“Diego Armando Maradona – D10S”.

E così, anche quando nessun cuore batterà più per lui, basterà il rotolare di un pallone perché Diego torni a vivere.
Ancora, e ancora.
Per sempre.

Luigi Palamara
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