@luigi.palamara Francesco De Cicco. La voce dal basso che il Palazzo non vuole sentire L'Editoriale di Luigi Palamara Il 20 novembre 2025, a Reggio Calabria, c’è stato un momento, nell’aula ovattata e spesso autoreferenziale del Consiglio regionale calabrese, in cui il copione si è strappato. È accaduto quando Francesco De Cicco, consigliere regionale dei Democratici e Progressisti e assessore al Comune di Cosenza, si è alzato in piedi, quasi di scatto, quasi per autodifesa. Non voleva parlare – l'ha ripetuto più volte – ma l’avevano costretto. O almeno così ha detto. E a giudicare da come si è acceso il suo intervento, c’è da credergli. Perché il suo non è stato un discorso da politico. È stato un grido da cittadino, da uomo che viene – come lui stesso ha ricordato – da un quartiere popolare, via Popilia, dove non ti regalano niente e dove la politica non arriva mai prima dei problemi, ma sempre dopo il disastro. E allora proviamo a capirlo, questo grido. A scomporlo, punto per punto. Perché in mezzo alle frasi di pancia e al linguaggio diretto, perfino ruvido, si è sentito qualcosa che il Palazzo spesso non riconosce più: la realtà. De Cicco ha esordito denunciando un’offesa. “Non mi faccio insultare da soldati politici”, ha detto. Un attacco frontale, certo, forse eccessivo nei toni. Ma la sostanza è chiara: c’è una parte della politica che guarda dall’alto in basso chi non ha pedigree di partito. Chi non arriva dai salotti buoni, chi non si piega a un segretario o a una corrente. L’eterna Italia dei colonnelli e dei sergenti, dei generali e dei gregari, dove chi non appartiene a una caserma politica viene considerato un intruso. De Cicco lo ha detto con brutale sincerità: “Non devo dire grazie a nessuno.” E per una volta, in quest’Italia di professionisti dell’obbedienza, fa quasi effetto sentirselo dire. Poi il consigliere è passato al passato recente: le elezioni. Ha rinfacciato al centrodestra di aver perso – secondo la sua ricostruzione – a Cosenza nel 2021 e nel 2025, e di essere destinato a perdere nel 2027. Può sembrare propaganda. E in parte lo è. Ma è propaganda che va al punto: la politica che governa ignora i luoghi dove perde. Li considera anomalie, non segnali. E invece i territori raccontano sempre, prima dei sondaggi, ciò che non funziona. “Chi non sa perdere, non merita di vincere.” E qui sta il primo nodo: l’arroganza del potere che pretende di non essere mai messo in discussione. Uno dei passaggi più duri del suo intervento riguarda l’acqua. Sorical, la società che gestisce il servizio idrico regionale, è stata accusata di operare male, di lasciare a secco interi comuni, di non garantire il flusso necessario nei serbatoi di Cosenza, Rende, Castrolibero, Montalto e altrove. E qui non c’è ideologia che tenga: l’acqua è un diritto. Quando manca, tutto il resto è retorica da convegno. La Calabria – che ha bacini idrici e montagne che dovrebbero garantire risorse – vive invece crisi di siccità cronica. Un paradosso che persiste da anni e che nessuno ha mai affrontato davvero. Il politico tradizionale cita la Tunisia, il Giappone, l’America. De Cicco no: lui cita il rubinetto. E in democrazia, il rubinetto vale più di mille geopolitiche. Altro capitolo: ATERP, le case popolari. “I fondi li avete dimezzati”, ha accusato. E soprattutto: perché tagliare proprio dove vivono le fasce più fragili? La verità è amara: i poveri non fanno lobby, non hanno uffici stampa, non portano voti organizzati. E dunque sono sempre i primi a pagare. È un’Italia antica, questa: “La politica ama i poveri, purché restino poveri e lontani.” C’è poi la questione dei fondi per la manutenzione stradale, che – secondo De Cicco – sarebbero spariti nel bilancio 2025. Nessun comune avrebbe ricevuto un euro. Una denuncia precisa, tecnica, quasi burocratica, ma decisiva. Perché quando non si riparano le strade non è solo una questione di buche: è una questione di sicurezza. Di ambulanze che rallentano. Di incidenti evitabili. Di isolamento. E soprattutto di giustizia territoriale: una regione
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Francesco De Cicco. La voce dal basso che il Palazzo non vuole sentire
L'Editoriale di Luigi Palamara
Il 20 novembre 2025, a Reggio Calabria, c’è stato un momento, nell’aula ovattata e spesso autoreferenziale del Consiglio regionale calabrese, in cui il copione si è strappato. È accaduto quando Francesco De Cicco, consigliere regionale dei Democratici e Progressisti e assessore al Comune di Cosenza, si è alzato in piedi, quasi di scatto, quasi per autodifesa. Non voleva parlare – l'ha ripetuto più volte – ma l’avevano costretto. O almeno così ha detto. E a giudicare da come si è acceso il suo intervento, c’è da credergli.
Perché il suo non è stato un discorso da politico. È stato un grido da cittadino, da uomo che viene – come lui stesso ha ricordato – da un quartiere popolare, via Popilia, dove non ti regalano niente e dove la politica non arriva mai prima dei problemi, ma sempre dopo il disastro.
E allora proviamo a capirlo, questo grido. A scomporlo, punto per punto. Perché in mezzo alle frasi di pancia e al linguaggio diretto, perfino ruvido, si è sentito qualcosa che il Palazzo spesso non riconosce più: la realtà.
De Cicco ha esordito denunciando un’offesa. “Non mi faccio insultare da soldati politici”, ha detto. Un attacco frontale, certo, forse eccessivo nei toni. Ma la sostanza è chiara: c’è una parte della politica che guarda dall’alto in basso chi non ha pedigree di partito. Chi non arriva dai salotti buoni, chi non si piega a un segretario o a una corrente.
L’eterna Italia dei colonnelli e dei sergenti, dei generali e dei gregari, dove chi non appartiene a una caserma politica viene considerato un intruso.
De Cicco lo ha detto con brutale sincerità:
“Non devo dire grazie a nessuno.”
E per una volta, in quest’Italia di professionisti dell’obbedienza, fa quasi effetto sentirselo dire.
Poi il consigliere è passato al passato recente: le elezioni.
Ha rinfacciato al centrodestra di aver perso – secondo la sua ricostruzione – a Cosenza nel 2021 e nel 2025, e di essere destinato a perdere nel 2027.
Può sembrare propaganda. E in parte lo è.
Ma è propaganda che va al punto: la politica che governa ignora i luoghi dove perde. Li considera anomalie, non segnali. E invece i territori raccontano sempre, prima dei sondaggi, ciò che non funziona.
“Chi non sa perdere, non merita di vincere.”
E qui sta il primo nodo: l’arroganza del potere che pretende di non essere mai messo in discussione.
Uno dei passaggi più duri del suo intervento riguarda l’acqua.
Sorical, la società che gestisce il servizio idrico regionale, è stata accusata di operare male, di lasciare a secco interi comuni, di non garantire il flusso necessario nei serbatoi di Cosenza, Rende, Castrolibero, Montalto e altrove.
E qui non c’è ideologia che tenga: l’acqua è un diritto. Quando manca, tutto il resto è retorica da convegno.
La Calabria – che ha bacini idrici e montagne che dovrebbero garantire risorse – vive invece crisi di siccità cronica. Un paradosso che persiste da anni e che nessuno ha mai affrontato davvero.
Il politico tradizionale cita la Tunisia, il Giappone, l’America.
De Cicco no: lui cita il rubinetto.
E in democrazia, il rubinetto vale più di mille geopolitiche.
Altro capitolo: ATERP, le case popolari.
“I fondi li avete dimezzati”, ha accusato.
E soprattutto: perché tagliare proprio dove vivono le fasce più fragili?
La verità è amara: i poveri non fanno lobby, non hanno uffici stampa, non portano voti organizzati. E dunque sono sempre i primi a pagare.
È un’Italia antica, questa:
“La politica ama i poveri, purché restino poveri e lontani.”
C’è poi la questione dei fondi per la manutenzione stradale, che – secondo De Cicco – sarebbero spariti nel bilancio 2025. Nessun comune avrebbe ricevuto un euro.
Una denuncia precisa, tecnica, quasi burocratica, ma decisiva.
Perché quando non si riparano le strade non è solo una questione di buche: è una questione di sicurezza. Di ambulanze che rallentano. Di incidenti evitabili. Di isolamento.
E soprattutto di giustizia territoriale: una regione non può essere governata solo dalle sue capitali amministrative.
Un’altra stoccata è arrivata sul tema del “fitto casa”: il contributo destinato alle famiglie in difficoltà per il pagamento dell’affitto.
Il consigliere ha denunciato la mancata erogazione dei fondi 2023, mentre già si pubblica il bando 2025.
È come chiedere al cittadino di pagare un conto nuovo mentre quello vecchio resta lì, impagato e ignorato.
E non serve essere di destra o di sinistra per capire che così si mina la fiducia della gente.
La questione più politica dell’intervento tocca l’idea di aggiungere due assessori alla giunta regionale.
De Cicco l’ha contestata in modo schietto:
“Se siete i migliori, se avete vinto col 60%, perché ve ne servono altri due?”
La domanda è legittima.
La risposta non è mai semplice, perché riguarda la malattia storica della politica italiana: la bulimia del potere.
Più poltrone, più equilibri interni, più fedeltà comprate con la promessa di un incarico.
In Italia, la politica non dimagrisce mai.
Nemmeno quando il popolo deve tirare la cinghia.
Il consigliere ha chiuso con una sfida quasi provocatoria:
“Volete cambiare lo statuto? Bene. Andiamo al voto. Lasciamo decidere i cittadini.”
Una richiesta semplice. Forse ingenua. Forse coraggiosa. Sicuramente democratica.
E proprio per questo, probabilmente, resterà inevasa.
Perché in Italia, quando si invoca il voto, chi sta al potere si mette sempre una mano sulla tasca e l’altra sulla sedia.
La verità sta in basso, non in alto.
Quando De Cicco ha detto:
“Io parto dal basso. Meglio così. Perché quando voli troppo alto, quando cadi ti fai male.”
ha pronunciato la frase più vera del suo discorso.
Personalmente ho apprezzato la lucidità della metafora.
Ed ho applaudito la disobbedienza.
Il Palazzo, prevedibilmente, ha scrollato le spalle.
Ma là fuori, nelle strade senza fondi, nelle case popolari senza lavori, nei rubinetti senza acqua, qualcuno avrà ascoltato.
E forse, per una volta, la politica avrà sentito la voce che teme di più:
quella del popolo, quando smette di essere suddito e torna a essere protagonista.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria, 22 novembre 2025
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