L’ombra lunga del Caso Shalabayeva e l’ultimo processo alla Polizia italiana

L’ombra lunga del Caso Shalabayeva e l’ultimo processo alla Polizia italiana

L'Editoriale di Luigi Palamara

Una frase, ascoltata mille volte nei caffè italiani, che oggi torna a galla come un mantra amaro: «Nella vita, prima o poi, la ruota gira sempre». È il riflesso fatalista di un Paese che non si stupisce più di nulla e che, pure quando parla di giustizia, lo fa con quel misto di rassegnazione e sospetto che sa di antico. Oggi la ruota sembra essere girata per Renato Cortese e per altri quattro uomini dello Stato. Ma in quale direzione, e soprattutto per conto di chi?

Renato Cortese non è un nome come gli altri. È uno di quelli che nelle biografie dei servitori dello Stato trovi accostato a latitanti scolpiti nella storia nera della Repubblica: Brusca, Provenzano, gli invisibili che hanno avvelenato l’Italia per decenni. Cortese, calabrese di Santa Severina (KR), classe 1964, è stato parte di quella generazione di poliziotti che non chiedeva luci, ma risultati. E i risultati li ha portati.

Poi arrivò il 2013, e con esso la vicenda Shalabayeva: un’operazione di polizia trasformata, negli anni, in un duello giudiziario interminabile. Dodici anni. Una vita. Una macina.

Oggi la condanna è confermata: cinque anni per sequestro di persona. E lui, uomo di poche parole, è stato costretto a dirne una che pesa più delle altre: «Tutta la mia carriera avrebbe meritato un minimo di rispetto».

La piazza digitale si spacca

Ed è difficile non vedere, scorrendo i commenti della gente comune, una frattura profonda, quasi antropologica.

C’è chi parla di «ingiustizia», con quelle faccine disperate che oggi suppliscono alle lacrime vere. Chi arriva a dire che «chi li ha giudicati nasconde qualcosa», fedele alla convinzione che in Italia il potere vero sia sempre altrove.
C’è chi manda un «abbraccio a Cortese», come si fa con un parente colpito da un lutto.
E poi ci sono quelli che elevano i poliziotti a «Eroi», con la E maiuscola, parola di cui spesso abusiamo, ma che talvolta ci sfugge nella sua responsabilità.

Infine, ci sono le voci più pacate ma non meno taglienti:
«La coscienza pulita è il più grande riconoscimento.»
È un commento semplice, quasi evangelico. Ma ci ricorda una cosa che solo gli uomini della strada riescono ancora a dire senza ipocrisia: esiste una verità che non è nei codici, ma negli sguardi che tornano a casa la sera.

Un processo allo Stato, prima che agli uomini

Non è la prima volta che servitori dello Stato finiscono davanti ai giudici. Ed è bene che accada: lo Stato di diritto non tollera zone d’ombra né scudi impunitari. Ma qui il caso è diverso. Qui non siamo di fronte a un abuso deliberato, un eccesso di potere, una deviazione criminale.

Qui siamo di fronte – come ricordano i sindacati di polizia – a uomini che, secondo la stessa Procura, «eseguirono l’espulsione in modo legale».
E viene allora da chiedersi, quando si capisce che la politica ha messo il becco dove non doveva: chi decide davvero, in Italia?
Perché se le decisioni si prendono nei piani alti, ma a rispondere sono sempre gli ultimi della catena, allora non siamo davanti a una giustizia, ma a una delega di responsabilità travestita da sentenza.

E allora dovremmo urlare, spalancando gli occhi davanti alle ingiustizie che puzzano di vigliaccheria istituzionale. I poliziotti sono spesso gli unici che mettono la faccia, mentre gli altri – quelli dai titoli altisonanti – se ne restano nascosti dietro firme, circolari, interpretazioni “procedurali”.

E mi viene in mente una cosa semplice:
non si processa un uomo per ciò che non ha deciso.

E allora?

Allora l’Italia, come sempre, si divide.
Tra chi crede nella condanna e chi la vive come un insulto.
Tra chi confida nei tribunali e chi pensa che certi verdetti siano scritti altrove.

Io non so – e nessuno dovrebbe pretendere di saperlo – quale sia la verità ultima.
Quello che so è che un Paese civile non può permettersi che i suoi migliori servitori vadano al macello giudiziario mentre chi decide davvero rimane nell’ombra.

La giustizia deve essere paziente, ma non ingrata. Ferma, ma non cieca.
E soprattutto: non dovrebbe mai trasformare un errore di Stato in una colpa individuale.

Perché quando si fa questo, la ruota che gira non porta equità.
Porta solo altro silenzio, altra sfiducia, altra rabbia.

E un Paese che diffida dei suoi poliziotti è un Paese che ha cominciato a diffidare di se stesso.

Luigi Palamara
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