Gratteri e il coraggio perduto della toga

Gratteri e il coraggio perduto della toga
L’editoriale di Luigi Palamara

Si percepisce qualcosa di antico, quasi d’altri tempi, nel modo in cui Nicola Gratteri affronta il mondo.
Non è un uomo che sorride con la bocca: lo fa con le rughe. Quelle di chi ha guardato per quarant’anni dentro il ventre nero dell’Italia e ne è uscito vivo, ma non illeso.
C’è chi raccoglie olive, e chi raccoglie prove. Lui fa entrambe le cose, con la stessa ostinazione di chi crede ancora che servire lo Stato non sia un mestiere, ma una condanna volontaria.

Stamattina, entrando nell’aula dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gratteri ha detto che era la prima volta in vita sua che ci metteva piede.
E in quell’ammissione, apparentemente banale, c’era la confessione di un’intera carriera: la storia di un magistrato mai allineato, mai addomesticato, mai reso organico a nessuno.
Né ai politici, né ai colleghi, né ai giornali.

Perché Gratteri non piace. Non piace al potere che preferisce i magistrati che tacciono, non piace ai salotti che si coccolano tra un convegno e una citazione in latino, non piace a quell’ordine giudiziario che ha confuso la prudenza con la paura.
E, come sempre accade in Italia, ciò che non piace viene isolato, attaccato, screditato.


In sette minuti — che poi sono diventati quattordici — Gratteri ha detto più verità di quante se ne ascoltino in un anno di simposi giuridici.
Ha ricordato, con la calma di chi è abituato alle minacce, che nei suoi anni a Catanzaro, quando la procura alzò il tiro contro la ’ndrangheta e i suoi complici in giacca e cravatta, l’ANM nazionale non mosse un dito.
A muoversi furono altri: le Camere Penali, che dopo due ore da ogni blitz già scrivevano comunicati indignati.
Intanto certa stampa — sei, sette giornali, sempre gli stessi — batteva il tamburo della delegittimazione: “Gratteri spettacolarizza, Gratteri esagera, Gratteri cerca la ribalta”.

Eppure, i fatti, non le opinioni, hanno avuto l’ultima parola.
Quelle ordinanze di custodia cautelare, che qualcuno definiva “evanescenti”, sono diventate condanne definitive.
Così, mentre la penna dei commentatori si muoveva con la leggerezza dell’ipocrisia, la Cassazione scriveva giustizia.

Ma questa, in fondo, è l’Italia.
Un Paese dove si premiano i prudenti e si sospettano i coraggiosi.
Dove chi indaga è più temuto del delinquente che indaga.
Dove la difesa delle apparenze conta più della difesa della verità.


“Non mi sono mai sentito vicino all’ANM”, ha detto Gratteri.
E chi lo ascoltava ha capito che non era una polemica, ma una diagnosi.
L’Associazione Nazionale Magistrati è diventata, negli anni, il rifugio dei conformisti della toga, di chi misura il coraggio in centimetri di carriera.
Una casa con molte stanze ma senza specchi, dove nessuno osa guardarsi per davvero.

Gratteri, invece, di specchi ne ha troppi. Ogni mattina deve chiedersi se ha fatto tutto il possibile.
Mentre altri costruiscono il proprio nome nelle correnti, lui costruisce una missione.
E quando un viceministro — di nome Sisto, di cognome ironico — lo accusa di “fare spettacolo”, Gratteri risponde con una frase che dovrebbe stare incisa sui muri delle scuole di magistratura:

 “Il coraggio non si compra al supermercato. O ce l’hai o non ce l’hai.



Ma la parte più importante del suo discorso è quella che riguarda il referendum.
Gratteri non parla da giurista: parla da cittadino che ha ancora il vizio di credere che le parole servano a cambiare le cose.
Dice che l’obiettivo, dietro certe proposte, è “normalizzare il pubblico ministero”.
Tradotto: renderlo innocuo.
Togliergli la voce, l’iniziativa, la libertà.
Farne un burocrate che archivia invece di indagare, che compila invece di pensare.

Ecco perché — dice — bisogna uscire dalle aule.
Perché se la magistratura continuerà a parlarsi addosso tra professori, avvocati e toghe, finirà col convincere solo se stessa.
La verità, se vuole sopravvivere, deve uscire all’aria aperta: nelle associazioni, nelle fondazioni, nei circoli, nei bar, nelle scuole.
La gente va coinvolta, informata con parole semplici, quelle 400 parole che tutti conoscono e usano, non con le liturgie accademiche di un diritto che non parla più il linguaggio della realtà.

“Non fate più convegni — ha detto — fate incontri.”
E aveva ragione.
Perché i convegni sono il mausoleo della parola morta: una platea di addetti ai lavori che si guardano allo specchio della propria erudizione e applaudono per dovere reciproco.
La piazza, invece, respira.
Lì la verità non si può citare, si deve spiegare.
E spiegare è un atto di coraggio, non di potere.


L’Italia, da decenni, non premia chi parla chiaro.
Premia chi sa tacere bene.
Eppure, come in ogni epoca confusa, c’è sempre qualcuno che rompe il silenzio e paga il prezzo di farlo.
Gratteri è uno di quei pochi uomini che non chiedono il permesso di essere liberi.

Il suo appello è più che politico: è morale.
Dice che bisogna tornare tra la gente, perché quando il popolo non capisce, smette di credere.
E quando smette di credere, smette di difendere la giustizia, lo Stato, perfino se stesso.


Nel fondo del suo discorso, tra la ruvidezza calabrese e la lucidità di un servitore dello Stato, c’è una preghiera laica:
smettetela di fare finta.
Smettetela di nascondervi dietro le parole, le correnti, le carriere.
Smettetela di essere giudici di voi stessi.

Perché questo Paese non ha bisogno di magistrati eleganti, ma di magistrati vivi.
Non di toghe stirate, ma di schiene dritte.
Non di scrivanie in ordine, ma di coscienze in disordine.

E se davvero, come dice Gratteri, “ce la possiamo fare”, sarà solo perché qualcuno — in un’aula, in una scuola, in una piazza o davanti a una telecamera — avrà avuto il coraggio di dire la verità.
E di non chiedere mai il permesso.

Luigi Palamara
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