I magnifici 7 e l’arte di affondare Reggio Calabria
L'Editoriale di Luigi Palamara
A Reggio Calabria la politica ha smesso da tempo di essere una questione di visione. È diventata, piuttosto, una somma di piccole manovre, di rancori sedimentati, di ambizioni personali malcelate sotto il velo di un linguaggio istituzionale ormai consunto. L’ultimo “Documento Politico” partorito dai sette consiglieri – i quattro del PD e i tre di Rinascita Comune – è l’emblema di questa deriva: un atto pensato più per riposizionarsi che per dare una rotta alla città.
La proposta? Traghettare Reggio verso cinque mesi di commissariamento, con l’effetto paradossale di consegnare una città già stremata all’ennesima fase di stasi. Un passaggio che non serve ai reggini, non serve alla minoranza, e probabilmente non serve neppure a chi lo ha immaginato: è solo la proiezione di un interesse di bottega, un modo per mettere la bandierina sul nulla e chiamarlo “responsabilità politica”.
Ed è qui che emerge un paradosso che ha dell’incredibile: il PD reggino, che da anni non riesce a decidere per sé stesso, pretende ora di decidere per tutti. Per la maggioranza, per la minoranza, addirittura per l’intero destino dell’istituzione comunale. Un sogno che li inganna, un’illusione di centralità maturata proprio nel momento in cui il partito vive la sua fase più debole e confusa.
Una debolezza che però non frena la presunzione di imporre agli altri ciò che non è in grado di imporre al proprio interno.
È chiaro ormai anche alle basole del Corso Garibaldi che questa mossa non ha nulla di strategico. Nel giugno 2023 avrebbe avuto un senso, avrebbe potuto aprire una riflessione sul ciclo amministrativo, forse persino una fase nuova. Oggi è solo la certificazione di un’incapacità crescente: l’incapacità di leggere il tempo politico, di comprendere la situazione reale della città, di collocare il proprio ruolo dentro un disegno più ampio. Non conoscere la politica e non saperla fare: due limiti che insieme diventano un grimaldello per fare danno.
Il Partito Democratico, in tutto questo, appare disarticolato, privo di bussola, prigioniero di logiche interne che hanno il sapore stantio del regolamento di conti. I sette sperano forse di trovare sponda nella minoranza, ma è una speranza mal riposta: il centrodestra ha già la vittoria in tasca, e non ha alcun interesse a condividere un gesto che sarebbe ricordato come un suicidio politico collettivo. Perché mai rinunciare al vantaggio di un contendente che si elimina da solo?
Ed è qui che il racconto individuale e quello collettivo si incrociano. La vicenda Falcomatà – il suo sorriso amaro in Aula, il suo addio composto, la sua consapevolezza di essere stato abbandonato non dagli avversari ma dai compagni di viaggio – è la cornice umana di questo scenario. Ma non è più il punto centrale. La storia che conta oggi è quella di un partito che non ha più rotta e che, non avendone, preferisce abbattere ciò che resta pur di non ammettere il proprio fallimento.
Siamo davanti all’ennesima forma di auto-distruzione politica: un partito che, quando perde contro gli altri, perde contro se stesso; un gruppo dirigente che non riesce a immaginare il futuro perché è troppo impegnato a riscrivere continuamente il passato; una classe politica che confonde la tattica con la strategia e il posizionamento personale con l’interesse pubblico.
La città, intanto, osserva tutto questo con un misto di stanchezza e lucidità. Sa perfettamente che questo livello così basso non era mai stato raggiunto. Sa che le manovre di queste settimane non porteranno vantaggi concreti a nessuno, se non a chi le ha architettate con l’illusione di risultare vincente in un gioco dove vincono solo l’immobilismo e la sfiducia.
I magnifici 7 – si fa per dire – (Giuseppe Marino, Franco Barreca, Vincenzo Marra e Nancy Iachino per il PD e Filippo Quartuccio, Giuseppe Sera e Santo Bongani per Rinascita Comune) si prenderanno forse un titolo, un trafiletto, qualche minuto di protagonismo. Ma lasciano dietro di sé il solito panorama: una città senza guida, un partito senza identità, un’intera comunità consegnata a una competizione elettorale anticipata che non nasce da una visione, ma dall’ennesimo corto circuito interno.
Falcomatà ha chiuso il suo viaggio con dignità. Il viaggio del PD calabrese, invece, pare concluso da tempo. Soltanto, non ha ancora trovato il coraggio di ammetterlo. E forse è proprio questo, oggi, il vero dramma politico di Reggio Calabria.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria, 18 novembre 2025
Se Atene piange, Sparta non ride.
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