Il silenzio dei paesi morti

Il silenzio dei paesi morti
L'Editoriale di Luigi Palamara


L’Italia che muore in silenzio, e nessuno se ne accorge. Non è l’Italia delle metropoli, dei talk show o delle piazze urlanti. È quella dei paesi, dei borghi aggrappati alle colline, delle valli dove un tempo si sentiva il suono delle campane e oggi solo l’eco del vento.

Lo spopolamento dei piccoli centri non è una fatalità. È il segno di una malattia profonda, politica prima ancora che economica. Quando una comunità smette di poter vivere dove è nata, lo Stato ha fallito. Perché lo Stato non è un’entità astratta: è la casa comune. E se la casa si svuota, vuol dire che chi la governa ha lasciato cadere le chiavi.

Lasciare i luoghi del cuore per sopravvivere altrove non è una scelta, è un esilio. È il più grande torto che una società possa infliggere ai suoi cittadini: strapparli alle proprie radici, sradicare la memoria, uccidere le emozioni più pure. E tutto questo in nome di un progresso che, alla fine, non rende più felici ma soltanto più soli.

Ci dicono che il successo, i soldi, la carriera siano la misura della realizzazione. Ma cosa resta di tutto questo se non puoi più assaporare i profumi della tua infanzia, la luce del tuo paese, la pioggia e il vento della tua vita? Nulla. Perché la felicità — quella vera — non abita nei grattacieli, ma nei ricordi. Nelle tavole dove si sedeva insieme, nelle fatiche condivise, nei sorrisi senza retorica.

Forse, più che un Ministero dell’Economia o delle Infrastrutture, servirebbe un Ministero della Felicità e del Ritorno. Un ministro che si occupi di restituire vita ai borghi, di dare dignità a chi vuole restare. Che metta il benessere emotivo al centro della politica, e non ai margini dei discorsi elettorali.

Perché una civiltà che costringe la sua gente ad abbandonare la terra dove è nata non è evoluta. È una civiltà che si è arresa.
E la nostalgia — quella che i politici disprezzano e gli intellettuali deridono — è invece una bussola. Indica la strada da cui siamo venuti, e quella che dovremmo avere il coraggio di riprendere.

Guardare al passato, oggi, non è un gesto romantico. È un atto rivoluzionario.

Luigi Palamara
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