@luigi.palamara Il Sindaco che saluta guardando il cielo. Quando il potere finisce resta l'uomo. Editoriale di Luigi Palamara Arriva un momento, nella carriera di ogni uomo pubblico, in cui la voce gli trema non per debolezza, ma per lucidità. È l’attimo in cui capisce che il potere non è un trono ma un trespolo: oggi ci sali, domani qualcuno ti spinge giù, e dopodomani nessuno ricorda più dove fosse inchiodato. Giuseppe Falcomatà, nel suo ultimo Consiglio da sindaco, questo lo ha capito. E lo ha detto con una sincerità che in politica somiglia più a un lusso che a una virtù. Ha parlato come parlano gli uomini che non devono più chiedere voti ma devono ancora rendere conto a se stessi: con la voce di chi scende dalla nave e si volta a guardare il porto. Perché undici anni di timone non sono un mandato: sono pelle viva, sono calli alle mani e cicatrici nell’anima. E lo si è visto quando ha detto di essersi guardato attorno e aver visto “fotogrammi”, “voci”, “volti”. Nessun politico alza gli occhi sui volti quando comincia. Lo fa alla fine, quando capisce che quei volti — alleati discontinui, oppositori inflessibili, funzionari silenziosi — sono la trama stessa della sua storia. E qualche volta anche le sue tempeste. Falcomatà, citando J-Ax, ha ammesso la cosa più umana che un politico possa ammettere dopo undici anni in trincea: il potere ti cambia. Ti trasforma, spesso senza che tu te ne accorga. Ti ritrovi dentro quel sistema contro cui hai sventolato il primo striscione, e allora ti chiedi se sei diventato ciò che combattevi o se finalmente hai capito che il mondo non è mai soltanto bianco o nero. Io, ascoltando quel passaggio, ho pensato che la politica è “l’arte di ingoiare rospi e far finta che siano ostriche”. La domanda vera è: quando te ne accorgi, hai il coraggio di sputarli? Falcomatà, a modo suo, ha provato a farlo: mettendosi di nuovo in gioco, non come salvatore, ma come reduce che non rinnega le cicatrici. Poi è arrivato il ringraziamento trasversale — “avversari, non nemici” — che oggi, in un’Italia che litiga per un parcheggio come per una poltrona, suona quasi rivoluzionario. Perché una cosa semplice, che nessuno dice più, lui l’ha detta: la politica è confronto, non faida. E chi lo dimentica trasforma un’aula consiliare in una curva da stadio. E qui, diciamolo, di curve ce ne sono già abbastanza. Falcomatà ha parlato anche dei morti che hanno attraversato questi anni: i dipendenti, gli “operai delle cattedrali”, quelli che reggono l’impalcatura dello Stato e non compaiono mai nelle foto. Senza di loro, la cattedrale crolla. Con loro, resta in piedi persino quando tutto sembra tremare. Poi, improvvisamente, è salito in cielo. Letteralmente. Ha parlato di poeti, di naviganti, di cieli interrogati nelle notti difficili. E lì è venuto fuori l’uomo, non il sindaco: quell’uomo che nelle notti più nere — e Reggio, negli anni, di notti nere ne ha avute parecchie — alzava gli occhi come fanno i bambini che cercano una lampada accesa in una stanza buia. E qui si è inserita la sua frase più autentica, quella che vale più di un discorso intero: «Non sono un poeta, ma credo nella forza di un ideale, nella forza di un pensiero che possa guidare le nostre azioni. Non so parlare al cielo, ma sapete bene quante volte mi sia rivolto al cielo per chiedere un consiglio, quando la strada sembrava più buia.» Parole così non si improvvisano. Escono solo a fine corsa, quando la verità non è più un rischio ma una necessità. E poi la metafora della nave, che non è retorica se la si è guidata per davvero: «In questi anni ho avuto l’onore di essere, per ben due volte, al timone della città. Da timoniere ho sempre pensato al bene dei naviganti, a fare approdare la nave in un porto sicuro, senza mai smettere di remare, anche quando i venti fischiavano forte in direzione ostinata e contraria. Con pazienza certosina abbiamo continuato a navigare, abbiamo tolto acqua, riparato le falle e traghettato la nave verso porti sicuri. E lo abbiamo fatto insieme.» Non è l’autocelebrazione d
♬ suono originale - Luigi Palamara
Il Sindaco che saluta guardando il cielo.
Quando il potere finisce resta l'uomo.
Editoriale di Luigi Palamara
Arriva un momento, nella carriera di ogni uomo pubblico, in cui la voce gli trema non per debolezza, ma per lucidità. È l’attimo in cui capisce che il potere non è un trono ma un trespolo: oggi ci sali, domani qualcuno ti spinge giù, e dopodomani nessuno ricorda più dove fosse inchiodato.
Giuseppe Falcomatà, nel suo ultimo Consiglio da sindaco, questo lo ha capito. E lo ha detto con una sincerità che in politica somiglia più a un lusso che a una virtù. Ha parlato come parlano gli uomini che non devono più chiedere voti ma devono ancora rendere conto a se stessi: con la voce di chi scende dalla nave e si volta a guardare il porto.
Perché undici anni di timone non sono un mandato: sono pelle viva, sono calli alle mani e cicatrici nell’anima.
E lo si è visto quando ha detto di essersi guardato attorno e aver visto “fotogrammi”, “voci”, “volti”. Nessun politico alza gli occhi sui volti quando comincia. Lo fa alla fine, quando capisce che quei volti — alleati discontinui, oppositori inflessibili, funzionari silenziosi — sono la trama stessa della sua storia. E qualche volta anche le sue tempeste.
Falcomatà, citando J-Ax, ha ammesso la cosa più umana che un politico possa ammettere dopo undici anni in trincea: il potere ti cambia. Ti trasforma, spesso senza che tu te ne accorga.
Ti ritrovi dentro quel sistema contro cui hai sventolato il primo striscione, e allora ti chiedi se sei diventato ciò che combattevi o se finalmente hai capito che il mondo non è mai soltanto bianco o nero.
Io, ascoltando quel passaggio, ho pensato che la politica è “l’arte di ingoiare rospi e far finta che siano ostriche”.
La domanda vera è: quando te ne accorgi, hai il coraggio di sputarli?
Falcomatà, a modo suo, ha provato a farlo: mettendosi di nuovo in gioco, non come salvatore, ma come reduce che non rinnega le cicatrici.
Poi è arrivato il ringraziamento trasversale — “avversari, non nemici” — che oggi, in un’Italia che litiga per un parcheggio come per una poltrona, suona quasi rivoluzionario.
Perché una cosa semplice, che nessuno dice più, lui l’ha detta: la politica è confronto, non faida. E chi lo dimentica trasforma un’aula consiliare in una curva da stadio. E qui, diciamolo, di curve ce ne sono già abbastanza.
Falcomatà ha parlato anche dei morti che hanno attraversato questi anni: i dipendenti, gli “operai delle cattedrali”, quelli che reggono l’impalcatura dello Stato e non compaiono mai nelle foto. Senza di loro, la cattedrale crolla. Con loro, resta in piedi persino quando tutto sembra tremare.
Poi, improvvisamente, è salito in cielo. Letteralmente.
Ha parlato di poeti, di naviganti, di cieli interrogati nelle notti difficili. E lì è venuto fuori l’uomo, non il sindaco: quell’uomo che nelle notti più nere — e Reggio, negli anni, di notti nere ne ha avute parecchie — alzava gli occhi come fanno i bambini che cercano una lampada accesa in una stanza buia.
E qui si è inserita la sua frase più autentica, quella che vale più di un discorso intero:
«Non sono un poeta, ma credo nella forza di un ideale, nella forza di un pensiero che possa guidare le nostre azioni.
Non so parlare al cielo, ma sapete bene quante volte mi sia rivolto al cielo per chiedere un consiglio, quando la strada sembrava più buia.»
Parole così non si improvvisano. Escono solo a fine corsa, quando la verità non è più un rischio ma una necessità.
E poi la metafora della nave, che non è retorica se la si è guidata per davvero:
«In questi anni ho avuto l’onore di essere, per ben due volte, al timone della città. Da timoniere ho sempre pensato al bene dei naviganti, a fare approdare la nave in un porto sicuro, senza mai smettere di remare, anche quando i venti fischiavano forte in direzione ostinata e contraria.
Con pazienza certosina abbiamo continuato a navigare, abbiamo tolto acqua, riparato le falle e traghettato la nave verso porti sicuri.
E lo abbiamo fatto insieme.»
Non è l’autocelebrazione di un comandante, ma la confessione di un uomo che ha passato più tempo a svuotare stive che a tagliare nastri.
E infine quella citazione antica, che sa di conflitto e di pace allo stesso tempo: fata viam invenient.
Il destino troverà la strada.
Un politico che, nel suo ultimo giorno da sindaco, cita Virgilio non sta dicendo addio: sta riconsegnando la sua parte di storia alla Storia.
Quando ha confessato che pensava questo giorno non sarebbe arrivato, ha ammesso ciò che ogni sindaco pensa e nessuno dice: nessuno è pronto a scendere dal palco.
Ma c’è un momento in cui bisogna farlo.
E lui l’ha fatto senza sbattere porte, senza incendiare ponti, senza chiedere alla storia di tenergliela socchiusa.
Falcomatà non ha chiesto niente.
Ha solo detto:
«Vi ringrazio tutti. È stato un viaggio bellissimo.
Per me è stato un grande onore.»
In un tempo in cui le parole sono armi, quel “grazie” — nudo, pulito, senza réclame — è stato il gesto più politico di tutti.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
Reggio Calabria, 17 novembre 2025
Commenti
Posta un commento
LASCIA IL TUO COMMENTO. La tua opinione è importante.