L’uomo con la pistola e la politica dei fuochi d’artificio

L’uomo con la pistola e la politica dei fuochi d’artificio
L'Editoriale di Luigi Palamara


Qualcosa di tragicamente italiano nella storia di Emanuele Pozzolo lo troviamo. Un deputato, una festa di Capodanno, un colpo di pistola che parte, una gamba ferita, e infine una condanna — leggera, sospesa, quasi simbolica — per porto abusivo d’armi. Tutto finisce così: con un anno e tre mesi che resteranno nei registri giudiziari come una nota a piè di pagina, un colpo partito per sbaglio e una risata amara che risuona nel silenzio del giorno dopo.

Ora, lasciamo stare per un momento il codice penale. Qui non si tratta solo di legalità, ma di decenza pubblica. Di quella misura che un tempo distingueva l’uomo di Stato dal bar di paese. Perché un deputato che arriva armato a una festa, fra brindisi, botti e sottosegretari scortati, non è il protagonista di un western, ma di una farsa nazionale. E se la farsa fa ridere, è solo per non piangere.

Pozzolo, ex Fratelli d’Italia — “ex” perché anche la sua stessa parte politica ha finito per scaricarlo, come si fa con una scheggia impazzita — rappresenta il sintomo, non la causa. Il sintomo di una politica che gioca alla virilità, che sbandiera il diritto di difendersi come un trofeo di machismo, ma poi confonde le armi, le licenze e forse anche il confine tra responsabilità e arroganza.
Perché in quella notte di Capodanno non c’era un duello. C’era solo un gruppo di uomini convinti di essere più forti del proprio ruolo, più grandi della legge, più seri dei fatti.

Eppure, come sempre, arriva il momento in cui la realtà presenta il conto. In tribunale, la toga non fa sconti ai brindisi. La pm Ranieri ha parlato chiaro, accusando la difesa di voler “minare la credibilità dei testimoni”. E qui, di nuovo, l’Italia si specchia: quando si è scoperti, si attacca il giudice, si discredita il testimone, si mette in scena la confusione come ultima forma di difesa.
Un copione vecchio come la nostra Repubblica, e ancora recitato con passione.

Si dirà che un anno e tre mesi con la condizionale non sono la fine del mondo. È vero. Ma il punto non è la misura della pena, bensì la misura dell’uomo. E di misura, in questa vicenda, non se ne è vista molta: né nel gesto, né nelle parole, né nel silenzio successivo.

E mentre tutto si chiude con il rituale “fatto non sussiste” per le munizioni di guerra, resta la sensazione amara che il vero fatto che non sussiste sia la responsabilità politica. Quella che dovrebbe imporre il pudore, la rinuncia, il passo indietro.
Invece no: il colpo parte, la vittima si risarcisce, la condanna si sospende, e il Paese, come sempre, archivia.

E così, da Rosazza a Roma, l’Italia si ritrova ancora una volta a chiedersi: chi ci difende da chi si arma per difendersi?

Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
1 novembre 2025

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