Magari, il seme dei campioni
Racconto di Luigi Palamara
Arriva un momento, nella vita dei grandi atleti, in cui si capisce che la loro storia non comincia quando sollevano una coppa o vincono una partita decisiva.
No, comincia molto prima.
Comincia in un campo periferico, in un pomeriggio qualunque, quando nessuno guarda davvero e nessuno immagina nulla.
Il Lemon Bowl è uno di quei posti.
Uno di quei luoghi minori che il pallone dei cronisti evita, ma che la memoria dei ragazzi trasforma in altari inconsapevoli.
Lì due bambini — uno già lungo e spigoloso come certe promesse che fanno paura, l’altro piccolo e leggero come un’idea appena nata — si scambiarono una frase qualsiasi. Una battuta per ridere, un gioco.
Eppure da quel gioco venne fuori un “magari”.
Una sillaba.
Un soffio.
Quella parola-bambino che nessuno prende sul serio, ma che spesso predice più dei bollettini dei grandi esperti.
Chi capisce gli uomini più delle ideologie, dice che la grandezza non è quasi mai una folgorazione improvvisa: è un filo rosso, sottile, che passa tra due esistenze e resiste alla ruggine del tempo.
Ed è proprio questo il punto: il filo.
Il filo tra Matteo e Flavio, tra un gigante in costruzione e un ragazzino che gli gravitava intorno come una luna scura.
Un filo che tredici anni dopo ritroviamo intatto nella stanza spogliata degli spogliatoi della Coppa Davis, mentre due uomini — non più un grande e un piccolo — infilano una maglia azzurra e provano a ricordarsi perché lo fanno.
Vu dico che non esiste destino senza una parte di volontà, senza una dose di ribellione iniziale, senza quel gesto che fai da bambino e che nessuno nota ma che ti forma per sempre.
Nell’annuire di Flavio davanti alle patatine, in quel “magari” che pareva una marachella verbale, c’era già il seme della sfida:
voglio esserci anch’io.
Voglio diventare qualcuno per cui vale la pena essere allievo.
È un nodo psicologico, esistenziale, sentimentale.
Il fatto che a un certo punto della vita scegli di essere, e non più soltanto di esistere.
E così, ecco che quei due — il ragazzo che si portava dietro troppo futuro e il bambino che non sapeva ancora portarsi dietro nulla — si ritrovano adulti a lottare contro la stessa squadra, nello stesso teatro, per la stessa bandiera.
Non più guidati da un biscotto, da una panchina o da un giornalista improvvisato, ma dalla memoria di ciò che è stato.
Perché, guardiamoci negli occhi: l’Italia è un Paese smemorato, che si dimentica troppo spesso che i suoi successi non nascono nei palazzi, ma nei cortili, nelle periferie, nei campi malmessi.
È lì che il talento prende fiato.
È lì che si impara ciò che nessun CT può insegnare: la fedeltà ai propri inizi.
Lì nasce il rispetto.
Lì nasce l’umiltà.
Lì nasce la forza che “viene su come il grano duro che non teme la siccità”.
E lì nasce anche quell’“andiamo” che oggi due uomini si diranno prima di entrare in campo.
Una parola che non comanda: richiama.
Non impone: accompagna.
Perché ci sono parole che non si dimenticano, e perché la vita — piaccia o non piaccia — tende a riportarci sempre dove siamo diventati noi stessi per la prima volta.
Il bello di questa storia, il motivo per cui vale un editoriale, non è la Coppa Davis né il Belgio da battere.
È quella piccola profezia pronunciata senza volerlo:
“Magari.”
Dentro quel “magari” c’era già tutto:
la fame, la stima, l’ambizione, la fragilità, la verità.
C’era il cuore nudo di due italiani che non hanno ancora paura di sognare.
E se l’Italia vuole un futuro sportivo, sociale o culturale, è da quelle sillabe che deve ripartire: dai bambini che guardano in su, dai ragazzi che si prendono cura di chi è più piccolo, dagli adulti che hanno ancora il coraggio di ricordare.
Perché un Paese cresce così.
Per “magari” diventati realtà a forza di sudore.
E questa, più che una storia di tennis, è una storia di educazione.
Di destino.
Di dignità.
Matteo e Flavio sono in finale e "magari" la vincono pure ... la Coppa Davis.
Ma questo conta meno. Vamossss ... Andiamo.
Luigi Palamara
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