Mimmo Nasone di Libera. A Reggio Calabria, la lezione più scomoda: siamo tutti responsabili
L'Editoriale di Luigi Palamara
A Piazza Carmine, sotto un cielo che odora di mare e rassegnazione, Mimmo Nasone parla come parlano i testimoni scomodi: senza slogan, senza tempi televisivi, e soprattutto senza il timore di ricordarci che siamo tutti un po’ complici.
Libera, dice, non è un’associazione: è una scelta di campo. È un atto di guerra — non armata, certo, ma pur sempre guerra — contro la mafia e contro quella mentalità che, come un’infezione antica, scorre nel sangue calabrese e non solo. Una mentalità che non ha bisogno di lupare né di “onorati”. Basta la furbizia elevata a virtù, la prepotenza quotidiana, l’indifferenza trasformata in filosofia di vita.
“In ognuno di noi c’è un tre per cento di ’ndrangheta.”
E il punto non è discutere la percentuale — che è metafora, non statistica — ma avere il coraggio di riconoscere che siamo un Paese in cui l’arroganza del più forte viene ancora scambiata per carattere.
Questa è la radice del nostro male nazionale: la vigliaccheria camuffata da realismo, il quieto vivere preso per saggezza, il girarsi dall’altra parte perché “non ci riguarda”. Poi, però, quando la violenza ci esplode sotto casa, quando un ragazzino tira fuori un coltello invece di una parola, ci chiediamo com’è stato possibile.
E qui Nasone ci sbatte la verità in faccia come si sbattono le finestre durante la tempesta: non è colpa solo dei genitori, né della scuola, né delle parrocchie.
È che viviamo immersi in un brodo culturale di disvalori diffusi, capillari, subliminali. È la normalizzazione della violenza che passa dalla TV, dai social, dai potenti che seminano morte come si seminano opinioni: Putin, Trump, Netanyahu. “Il più forte ha sempre ragione”, dicono i grandi del mondo. E le mafie, naturalmente, ringraziano.
La famiglia è disarmata. La scuola è disarmata. Le comunità educative sono disarmate.
E mentre gli adulti giocano alla politica e alla geopolitica, i quindicenni vanno in giro con il coltello in tasca, perché la vita degli altri — dice Nasone — ormai vale quanto un like su un cellulare.
Andrebbe chiamata “la fabbrica dell’imbecillimento di massa”.
Oppure in modo più ironico e più feroce, possiamo parlare di “un popolo che ama essere governato purché non gli si chieda di pensare”.
Nasone invece usa un’altra parola, più precisa e più tragica: strategia.
Sì, perché questa diffusione di incoscienza non è un incidente della modernità. È utile. Serve a chi comanda. Una società rincoglionita non protesta, non vota, non reagisce. Sopravvive. Finché non tocca a lei.
In questo paesaggio disperato — dove il pessimismo non è pessimismo ma semplice fotografia della realtà — Libera prova a essere un faro. Una luce intermittente, dice lui, perché senza persone che partecipano davvero, anche quella si spegne.
E allora cosa vale una tessera?
“Tanto e niente.”
Niente se resta un souvenir, un badge da sventolare per sentirsi migliori senza muovere un dito.
Tanto se diventa un impegno, una scelta definitiva, una presa di posizione in un mondo che scivola verso la violenza come fosse il suo destino naturale.
Alla fine, quello che resta nell’aria di Piazza Carmine non è pessimismo.
È una domanda bruciante, fastidiosa, tipica della migliore tradizione giornalistica italiana:
da che parte vogliamo stare?
Perché contro la mafia non si è neutrali. Mai. E contro la violenza che ci sta trasformando in un popolo di sonnambuli armati, ancora meno.
E allora sì, oggi come ieri, come sempre:
la libertà è una scelta.
E la dignità pure.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 26 novembre 2025
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@luigi.palamara Mimmo Nasone di Libera. A Reggio Calabria, la lezione più scomoda: siamo tutti responsabili L'Editoriale di Luigi Palamara A Piazza Carmine, sotto un cielo che odora di mare e rassegnazione, Mimmo Nasone parla come parlano i testimoni scomodi: senza slogan, senza tempi televisivi, e soprattutto senza il timore di ricordarci che siamo tutti un po’ complici. Libera, dice, non è un’associazione: è una scelta di campo. È un atto di guerra — non armata, certo, ma pur sempre guerra — contro la mafia e contro quella mentalità che, come un’infezione antica, scorre nel sangue calabrese e non solo. Una mentalità che non ha bisogno di lupare né di “onorati”. Basta la furbizia elevata a virtù, la prepotenza quotidiana, l’indifferenza trasformata in filosofia di vita. “In ognuno di noi c’è un tre per cento di ’ndrangheta.” E il punto non è discutere la percentuale — che è metafora, non statistica — ma avere il coraggio di riconoscere che siamo un Paese in cui l’arroganza del più forte viene ancora scambiata per carattere. Questa è la radice del nostro male nazionale: la vigliaccheria camuffata da realismo, il quieto vivere preso per saggezza, il girarsi dall’altra parte perché “non ci riguarda”. Poi, però, quando la violenza ci esplode sotto casa, quando un ragazzino tira fuori un coltello invece di una parola, ci chiediamo com’è stato possibile. E qui Nasone ci sbatte la verità in faccia come si sbattono le finestre durante la tempesta: non è colpa solo dei genitori, né della scuola, né delle parrocchie. È che viviamo immersi in un brodo culturale di disvalori diffusi, capillari, subliminali. È la normalizzazione della violenza che passa dalla TV, dai social, dai potenti che seminano morte come si seminano opinioni: Putin, Trump, Netanyahu. “Il più forte ha sempre ragione”, dicono i grandi del mondo. E le mafie, naturalmente, ringraziano. La famiglia è disarmata. La scuola è disarmata. Le comunità educative sono disarmate. E mentre gli adulti giocano alla politica e alla geopolitica, i quindicenni vanno in giro con il coltello in tasca, perché la vita degli altri — dice Nasone — ormai vale quanto un like su un cellulare. Andrebbe chiamata “la fabbrica dell’imbecillimento di massa”. Oppure in modo più ironico e più feroce, possiamo parlare di “un popolo che ama essere governato purché non gli si chieda di pensare”. Nasone invece usa un’altra parola, più precisa e più tragica: strategia. Sì, perché questa diffusione di incoscienza non è un incidente della modernità. È utile. Serve a chi comanda. Una società rincoglionita non protesta, non vota, non reagisce. Sopravvive. Finché non tocca a lei. In questo paesaggio disperato — dove il pessimismo non è pessimismo ma semplice fotografia della realtà — Libera prova a essere un faro. Una luce intermittente, dice lui, perché senza persone che partecipano davvero, anche quella si spegne. E allora cosa vale una tessera? “Tanto e niente.” Niente se resta un souvenir, un badge da sventolare per sentirsi migliori senza muovere un dito. Tanto se diventa un impegno, una scelta definitiva, una presa di posizione in un mondo che scivola verso la violenza come fosse il suo destino naturale. Alla fine, quello che resta nell’aria di Piazza Carmine non è pessimismo. È una domanda bruciante, fastidiosa, tipica della migliore tradizione giornalistica italiana: da che parte vogliamo stare? Perché contro la mafia non si è neutrali. Mai. E contro la violenza che ci sta trasformando in un popolo di sonnambuli armati, ancora meno. E allora sì, oggi come ieri, come sempre: la libertà è una scelta. E la dignità pure. Luigi Palamara Tutti i diritti riservati Reggio Calabria 26 novembre 2025 #libera #mimmonasone #editoriale #luigipalamara #reggiocalabria ♬ suono originale - Luigi Palamara
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