New York alza il volume: Zohran Mamdani sfida Trump e inaugura l’era del coraggio
L'Editoriale di Luigi Palamara
Qualcosa di inesorabilmente americano, e insieme profondamente newyorkese, c'è nel modo in cui Zohran Mamdani ha varcato la soglia della storia. Un immigrato, un socialista democratico, un uomo che la politica dell’establishment avrebbe preferito confinare ai margini — e che invece, pochi minuti fa, ha parlato da sindaco della città più complessa e simbolica del mondo.
Non è stato un discorso: è stata una dichiarazione di guerra. Ma una guerra combattuta con le armi della parola e della coscienza, come forse solo certi giovani idealisti credono ancora possibile.
Si avvertiva nell’aria — e nelle sue parole — quel misto di sfida e speranza che si respirava nei giorni in cui New York era la capitale morale d’America, la città che sapeva opporsi ai potenti non con la forza, ma con la libertà. Mamdani non ha parlato come un politico, ma come un cittadino che reclama la restituzione del suo paese da mani indegne.
Ha guardato diritto verso Washington, verso il volto che per molti incarna la corruzione del sogno americano, e lo ha chiamato per nome.
Trump.
Un cognome che, da Manhattan a Mar-a-Lago, è diventato sinonimo di arroganza e denaro, ma anche di quel cinismo sistemico che trasforma la politica in un affare privato.
Eppure, Mamdani non ha ceduto al rancore. Ha parlato come chi crede ancora nel dovere della verità, nella necessità di “una generazione di cambiamento”, nella possibilità che la città che ha dato i natali al despota possa essere anche quella che lo sconfigge. C’è in lui — lo si sentiva — un tono quasi profetico, la convinzione che la lotta contro Trump sia solo il sintomo di una battaglia più grande: quella contro il potere che divora la democrazia dall’interno.
Forse ingenuo, certamente temerario, Mamdani ha osato ciò che pochi hanno il coraggio di dire: che non basta “fermare Trump”, bisogna smantellare le condizioni che lo hanno reso possibile.
E in quell’appello — “Donald Trump, alza il volume” — non c’era solo la provocazione di un giovane sindaco al presidente in carica, ma la rivendicazione di un popolo che non intende più tacere.
Ha evocato i lavoratori, gli immigrati, le madri sole, i sindacati. Ha promesso giustizia fiscale e dignità sociale. Ha parlato di case e di corruzione, di diritti e di dignità.
Ma soprattutto, ha parlato di sé senza nascondersi, come non si usa più fare nella politica che conta:
“Sono giovane, nonostante i miei sforzi per invecchiare. Sono musulmano. Sono un socialista democratico. E, cosa più grave, mi rifiuto di scusarmi per tutto questo.”
Un uomo che non chiede scusa per ciò che è: questo, in fondo, è il segreto di ogni rivoluzione.
Luigi Palamara
Tutti i diritti riservati
Il discorso integrale:
“In questo momento di oscurità politica, New York sarà la luce. Qui, crediamo nel difendere coloro che amiamo, che tu sia un immigrato, un membro della comunità trans, una delle tante donne nere che Donald Trump ha licenziato da un incarico federale, una madre single che aspetta ancora che il costo della spesa scenda, o chiunque altro si trovi con le spalle al muro. La tua lotta è anche la nostra.
(..)
Vogliono che la gente si scontri tra di noi, in modo da distrarci dal lavoro di ricostruzione di un sistema ormai in rovina. Ci rifiutiamo di lasciare che siano loro a dettare ulteriormente le regole del gioco. Possono giocare secondo le stesse regole del resto di noi.
Insieme, daremo inizio a una generazione di cambiamento. E se abbracciamo questo nuovo corso coraggioso, invece di rifuggirlo, potremo rispondere all'oligarchia e all'autoritarismo con la forza che temono, non con l'appeasement che bramano.
Dopotutto, se c'è qualcuno che può mostrare a una nazione tradita da Donald Trump come sconfiggerlo, è proprio la città che lo ha generato. E se c'è un modo per terrorizzare un despota, è smantellare le condizioni stesse che gli hanno permesso di accumulare potere.
Non è solo così che fermeremo Trump; è così che fermeremo anche il prossimo.
Quindi, Donald Trump, visto che so che mi stai guardando, ho quattro parole per te: alza il volume.
Chiederemo conto ai proprietari di casa infedeli, perché i Donald Trump della nostra città si sono abituati fin troppo bene ad approfittarsi dei loro inquilini. Porremo fine alla cultura della corruzione che ha permesso a miliardari come Trump di evadere le tasse e sfruttare le agevolazioni fiscali. Staremo al fianco dei sindacati e amplieremo le tutele del lavoro perché sappiamo, proprio come Donald Trump, che quando i lavoratori godono di diritti incrollabili, i datori di lavoro che cercano di estorcerli diventano davvero molto piccoli.
New York rimarrà una città di immigrati: una città costruita da immigrati, alimentata da immigrati e, da stasera, guidata da un immigrato.
Quindi ascoltami, Presidente Trump, quando dico questo: per arrivare a uno qualsiasi di noi, dovrai passare attraverso tutti noi. Quando entreremo in Municipio tra 58 giorni, le aspettative saranno alte. Le soddisferemo. Un grande newyorkese una volta disse che mentre si fa campagna elettorale in poesia, si governa in prosa.
Se questo deve essere vero, che la prosa che scriviamo continui a essere in rima e che costruiamo una città splendente per tutti. E dobbiamo tracciare un nuovo percorso, audace quanto quello che abbiamo già percorso. Dopotutto, la saggezza convenzionale vi direbbe che sono ben lungi dall'essere il candidato perfetto.
Sono giovane, nonostante i miei sforzi per invecchiare. Sono musulmano. Sono un socialista democratico. E, cosa più grave, mi rifiuto di scusarmi per tutto questo”.
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