Pd Calabria. Il Partito che punisce chi vince
L'Editoriale di Luigi Palamara
Vi è davvero qualcosa di patologico nel Partito Democratico in Calabria.
Una tendenza antica, quasi genetica: punire chi vince, premiare chi perde. È la malattia di un partito che confonde la disciplina con la sottomissione, la lealtà con l’obbedienza, la coerenza con la ribellione.
L’ultimo caso si chiama Giuseppe Falcomatà.
Sindaco di Reggio Calabria, uomo di consenso e di popolo, capace di vincere senza padrini né scudi. Si è fatto eleggere in Consiglio regionale da solo, senza l’aiuto del suo stesso partito. E per questo il PD lo punisce.
Non gli riconosce nemmeno la carica di capogruppo — una formalità, un gesto minimo di rispetto politico. Lo esclude, lo isola, lo ignora. Perché? Perché la sua sola presenza ricorda a troppi quanto profonda sia la crisi del PD: un partito che da anni predica rinnovamento e pratica esclusione.
Il segretario regionale Nicola Irto, dicono, vuole piazzare i “suoi”: Ernesto Alecci e Giuseppe Ranuccio. Tutto legittimo, per carità. Ma la verità è un’altra, più amara: Falcomatà fa paura.
Non alla destra, ma ai suoi. Fa paura perché non deve niente a nessuno, perché parla con la gente, perché ha un volto, un nome, una storia. Fa paura perché rappresenta ciò che il PD ha dimenticato di essere: popolare, concreto, vincente.
In Calabria, il partito che dovrebbe fare opposizione al centrodestra si sta invece opponendo a se stesso. Tre sconfitte consecutive non sono bastate. Il PD continua a muoversi come un organismo stanco, che si aggrappa ai suoi errori per non affogare. Tutto cambia, perché nulla cambi.
Falcomatà, nel frattempo, resta lì.
Nonostante tutto, e forse proprio per questo, più libero e più pericoloso di prima. Perché un uomo escluso, quando ha dalla sua il consenso del popolo, non è un emarginato: è un simbolo.
E allora il paradosso è servito.
Il PD, che da anni non trova un leader, ne ha uno sotto il naso e lo spinge fuori. Crede di indebolirlo e invece lo rafforza. Crede di chiuderlo in un angolo e invece lo trasforma in un punto di riferimento.
Quando si accorgerà dell’errore, sarà troppo tardi.
Perché la verità è semplice e brutale:
il Partito Democratico, in Calabria come altrove, non muore per mano dell’avversario. Muore per mano propria.
E a scavargli la fossa, ogni volta, sono i suoi stessi dirigenti. Con il sorriso sulle labbra e la pala del risentimento in mano.
Luigi Palamara
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Reggio Calabria 11 novembre 2025
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