Il peso leggero dei nostri “vorrei”

Il peso leggero dei nostri “vorrei”


C’è una parola che usiamo tutti, tutti i giorni, con la stessa incoscienza con cui si apre una finestra: vorrei. Una parola piccola, timida, quasi infantile. Eppure è la più sovversiva, la più pericolosa, la più vera.
Perché nel “vorrei” c’è l’uomo nudo, quello che non si è ancora messo l’armatura, quello che non ha ancora imparato a mentire a sé stesso.

Il “vorrei” è la forma più elegante della rassegnazione italiana.
È la miccia di ogni rivoluzione privata.

I nostri “vorrei” non sono desideri lanciati al vento, ma piccoli chiodi piantati nella carne del tempo. Li seminiamo senza pensarci, li cambiamo come cambiamo stagione, e poi — quando la vita ci presenta il conto — scopriamo che quei puntini, uno dopo l’altro, hanno formato una linea. La nostra. E non ce n’è un’altra di scorta.

La chiamiamo destino, la chiamiamo Fede, la chiamiamo caso. In realtà è soltanto il modo brusco e meraviglioso in cui la vita ci dice: Ehi, guarda. Eri tu, da sempre.

Ci accorgiamo allora che i “vorrei” sono preghiere mascherate. Certi giorni suppliche, in altri bestemmie. A volte gioiose, altre disperate, ma sempre vere. Vere come l’amore, quello che non si studia, non si programma, non si corregge con l’editing. Quello che ti fa tremare le mani come un ragazzo alla prima cotta, e ti scioglie le paure, e ti convince per qualche minuto che la felicità esiste, eccome se esiste.

Ma poi arriva la solitudine. La più antica, la più feroce. Quella che non fa rumore, ma ti mangia da dentro.
E allora il “vorrei” cambia pelle: diventa un grido, un bisogno di ordine in mezzo al disordine, di luce nel buio, di lacrime che non evaporano ma lasciano traccia.
Traccia di vita, finalmente.

La verità — lo sussurro piano perché fa male — è che noi non vogliamo la felicità come traguardo: vogliamo che ci accompagni. Vogliamo indossarla, come un abito. Camminarle accanto, senza doverla rincorrere come cani stanchi dietro una macchina che non si ferma mai.

C’è chi dice che sia ingenuità. Io dico che è saggezza. Quella degli uomini che hanno amato, perduto, riscritto sé stessi cento volte.

E poi c’è l’ultimo “vorrei”.
Il più semplice.
Il più feroce.

Vorrei che mi amaste per quello che sono.
Luigi
Luigi Palamara

Non per la maschera, non per il ruolo, non per il mestiere, non per l’immagine che vi siete costruiti.
Per l’uomo.
Per il padre.
Per il figlio che corre ancora verso il cielo, con la stessa ostinazione di chi sa che la vita è un viaggio breve, e che nessuno di noi resta davvero.

Chiudiamo gli occhi, allora.
Immaginiamo ciò che desideriamo.
Non perché sia magia, ma perché è il primo passo per smettere di fingere.

E i “vorrei”, tutti quei minuscoli desideri sparpagliati come chicchi di grano, un giorno ci indicheranno la strada che avevamo già dentro.

Luigi Palamara
Artista e Giornalista

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